L'arteterapia ai tempi del Covid

Laura Grignoli e Barbara Cipolla
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I messaggi corrono su whatsapp…

Laura: –Ed ora? Come si fa ad animare i laboratori di arteterapia in questo periodo di confinamento?

Barbara: – Non si può uscire. I rapporti, perfino con il medico di base, si gestiscono con i messaggini. Le terapie individuali potremmo tenerle… chiedendo magari un certificato del tampone negativo, ma come si può rischiare di vedersi in gruppo e lavorare fianco a fianco, come ci si può scambiare il tubetto di colla o la scodellina dei colori? Ma se sospendiamo sine die vanificheremmo tutto quello che abbiamo fatto finora!

Laura:-In presenza è troppo rischioso, ma vedersi si può eccome!

Barbara:-Diamo appuntamento a tutti i componenti del gruppo su una piattaforma online e decidiamo il da farsi.

Mai abbiamo apprezzato la tecnologia come in questo frangente!

La principale difficoltà accusata dalle persone in questo periodo di reclusione forzata è l’isolamento. Senza i contatti con gli altri vivono una parentesi fuori dal tempo, senza ‘benchmark’ ovvero senza quelle attività che scandiscono le loro giornate.

I primi obiettivi dei laboratori di arteterapia a distanza sono pensati, a mo’ di sfida, per irrompere in questo isolamento, per trattenere quel legame sociale che rassicura le persone in terapia sulla sopravvivenza dei loro punti di riferimento.

Le condizioni del trattamento sono forzosamente cambiate, non ci si può incontrare di persona. Inizialmente si sperava solo temporaneamente. Ma i mesi passano e la situazione non migliora. Prendiamo atto che nell’emergenza non possiamo che sfruttare il problema come occasione per imparare ad uscire dai confort e dalle sicurezze. Scoprire l’ effimero è lo scopo principale di un  buon trattamento terapeutico.

Ogni psicoterapia si avvale di presenza: il terapeuta, il paziente, il setting. Questo in tempi normali. Anche in questo campo molti terapeuti son dovuti ricorrere alle terapie su piattaforme online o via telefono (gli psicoanalisti trovano la comunicazione verbale la più vicina a quella sul lettino).

L’arteterapia aggiunge ai tre elementi su citati anche i medium, ovvero i materiali di cui ci si serve per esprimere i vissuti, elaborando un’opera ‘artistica’. Insomma il corpo è attivo e l’opera prodotta è concreta: tangibile e visibile.

Tuttavia dobbiamo ribadire che i materiali non sono terapeutici in sé. Non sono pillole di antibiotico. É sempre l’arteterapeuta a mettere in piedi dei dispositivi tali da stimolare una risposta ‘erotica’ nel paziente. Il materiale a disposizione, tuttavia, quali i colori, i pennelli, l’argilla, la carta e altri materiali informali, pur stimolando alcuni, inibisce la maggior parte.

Non si ha una partenza automatica ma sarà sempre la relazione tra le parti, che guida il terapeuta ad orientare il paziente o il gruppo dei pazienti a esternare con gesti creativi il proprio mondo interno.

Il problema, dunque, che si è venuto a creare in questo periodo di confinamento, in cui ci si incontra online, è l’assenza del corpo. Anzi è meglio parlare di parzialità di presenza, visto che la presenza c’è, su un monitor, a distanza. La voce e la vista sono presenza attiva e fisica del corpo, è la prossimità che è alterata: vicini e lontani contemporaneamente. Abbiamo dovuto riflettere e studiare nuove modalità di gestire i nostri laboratori, inventandoci un Artelieu ‘diffuso’.

Oggi, dopo svariati mesi di confinamento, noi immaginiamo degli atelier aerei, virtuali, dove ugualmente si usano il corpo e le mani, però, la presenza tra i membri è da remoto, come si usa dire.

Ci chiediamo: è un evento eccezionale o il cambiamento investe la globalità delle forme relazionali?

Le frequentazioni umane vanno sempre più modificandosi, lo dobbiamo ammettere, e non solo a causa del Covid.

Il problema che si pone oggi in modo impellente sulla comunicazione umana ci induce a riflessioni ulteriori, che verranno sviluppate man mano dai nuovi Watzlawick. Per ora la sfida immediata è chiedersi se lo strumento video chiamata, che pare funzionare per i cosiddetti webinar, possa essere sperimentato per animare laboratori di arteterapia. Per molti che immaginano i laboratori d’arteterapia come quelli degli artisti con cavalletti e tavolozze certo appare insano proporre l’arteterapia online. Ma noi che vediamo l’arteterapia piuttosto come un’officina interiore sempre al lavoro siamo propensi a metterci in gioco in tutti i modi consentiti.

È evidente che gestire dei laboratori da remoto non può limitarsi ad improvvisazioni o a fare un copia-incolla di proposte che si fanno normalmente in presenza.

I dispositivi devono essere studiati ad hoc, per consentire di lavorare da soli pur con il cordone ombelicale delle emozioni connesso col terapeuta e con l’occhio di una webcam.

Pensare alla possibilità dell’arteterapia a distanza non vuol dire che è sempre possibile. In primis vanno analizzate le condizioni di attuabilità. Per esempio il tipo di problematiche del paziente, la sua familiarità con i mezzi telematici, l’ambiente in cui vive, la sua accertata resistenza ai prolungati tempi di connessione, la sua capacità di rifornirsi da solo di materiali basici con cui lavorare. Azione quest’ultima già di per sé fortemente creativa e decisionale.

Ma anche da parte del terapeuta devono esserci delle condizioni. Soprattutto gli si richiede di essere un ‘digital strategist’ oltre quello di saper gestire un gruppo a distanza.

E poi, per non farla troppo semplice, e per ribadire che non si può improvvisare l’ arteterapia a distanza, occorre che il paziente sappia gestire le emozioni sufficientemente, visto che tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo l’imprevisto: saper usare uno strumento non vuol dire necessariamente  padroneggiarlo.

E se durante il collegamento cade la linea? E se l’audio è disturbato? E se in casa ci sono altre persone per cui manca di privacy?

Tutti conosciamo il disagio di una videochiamata quando percepiamo l’interlocutore in modo diverso dall’incontro in presenza. Quando non possiamo sottrarci allo sguardo diretto. Quando ‘ospitiamo’ e ‘siamo ospitati’ nello stesso momento. Quando ‘viviamo’ due ambienti in contemporanea.

Prerequisito, dunque, fondamentale è la capacità nel paziente di saper gestire piccoli contrattempi senza cedere all’angoscia, ma anche di essere in collegamento senza ‘sostare’ a lungo sullo sguardo.

Siamo in fase di tentativi e tutto quello che stiamo sperimentando dovrà essere avvalorato nel corso del tempo e in condizioni le più diversificate.

La visione dell’arte e della sua continua evoluzione, alla base di molte nostre suggestioni che offriamo nei laboratori di arteterapia, ci prende veramente nel profondo, mostrandoci dei risvolti senza i quali non riusciremmo a dare un senso a certe produzioni dei pazienti.  

 Oggi per esempio percepiamo, tenendo conto dei fattori del macro e del micro cosmo artistici e scientifici, di vivere in un’epoca basata non solo sulle cose materiali e immateriali, ma sulla frenesia, sulla rapidità, sulla transizione. E’ l’epoca basata sempre di più su una realtà che sfugge, che porta l’uomo e l’umanità occidentale a vivere in modo illusorio la propria vita in relazione alle vite altrui: si percepisce veramente il senso del latente, il non toccabile, l’invisibile, il virtuale e il multimediale.

Nei nostri laboratori si sente moltissimo tutto questo. E non accade in modo intenzionale, ma semplicemente perché ognuno percepisce i cambiamenti e le suggestioni dell’epoca in cui vive. Detto questo è più comprensibile quello che proponiamo nei dispositivi artistici a distanza e perché le suggestioni che vengono dal mondo dell’arte sono rivelatrici.

Proponiamo qualche esempio di laboratori effettuati nella prima fase del confinamento per il covid, ovvero tra marzo e dicembre 2020.

Laboratorio per il museo del non visibile

La consegna è: crea un’opera pensabile, non visibile, in cui si usino solo le mani immaginarie.

Questo laboratorio presuppone un gruppo avanzato, che abbia già superato lo sblocco dell’immaginazione e che abbia accesso all’attività simbolica. Ci siamo ispirate all’iniziativa del MONA (museum of non visible art) creato da James Franco a New York. Si tratta di un museo di sole idee, senza opere fisiche da toccare o da guardare. Esse sono opere da immaginare a partire dalle descrizioni degli artisti autori che ‘espongono’. Iniziativa stravagante certo, ma l’extra vagare in arteterapia è l’investimento più redditizio.

La creazione è impalpabile, si serve di immagini descrivibili solo a parole in modo minuzioso, ricco e suggestivo, in modo che gli ‘spettatori’ possano creare una copia dell’opera nella loro testa. Ciò creerà tanti musei del non visibile quanti sono gli spettatori disposti a co-creare l’opera. Un bel risultato, vero? E il tutto senza uscire di casa, senza biglietto, dove l’ingrediente necessario è dato dalla concentrazione all’ascolto. Ciascuno si lascia andare a una visione fino a quando il vagare non si arresti su una sola immagine, completa come un quadro. Poi scrive su un foglietto con parole-pennellate.

Alla fine del laboratorio gestito individualmente della durata di pochi minuti, verrà riaperto l’audio e sulla piattaforma si procede alla lettura di ciascuna opera da parte dell’autore. Gli spettatori possono porre domande chiarificatrici del tipo: che colore era…la tal cosa era davanti a…

Si prosegue finché tutti i componenti del gruppo abbiano svolto il loro ruolo di autore. A seconda del gruppo si può aggiungere un momento di commento sulle immagini immagazzinate nel proprio museo.

Il progetto può sembrare stravagante e di difficile comprensione, ma altro non è che la specularità all’estrema evoluzione dell’arte contemporanea, dove spesso non è tanto importante il prodotto finito, quanto l’ispirazione, la novità, il gesto con cui viene realizzato. E noi analogamente in arteterapia non miriamo a produrre oggetti, ma a sollecitare processi. Il dispositivo suddetto non è stato facile, si tendeva a sconfinare nella scrittura creativa. Noi, invece, chiedevamo una immagine. Magari composita ma un’unica immagine. Dopo molte esperienze sarà un traguardo raggiunto.

 Laboratorio: Distanziamento con carezze

La consegna-guida per questo dispositivo è ‘Inventa con i materiali a tua disposizione a casa un congegno artistico che, mentre ti distanzia fisicamente dagli altri, ti consente di accarezzare.

I lavori sono interessanti in quanto evidenziano le massicce proiezioni della propria affettività che vengono investite sul lavoro. Ognuno mette in evidenza come discostarsi da ciò che ritiene pericoloso, ma ciascuno immagina anche come ‘toccare’ l’altro o come vorrebbe essere accarezzato. Ecco apparire allora un cappello a falde larghe da un metro, i cui terminali sono fatti di piume. Un altro lavoro usa il corpo con prolunghe alle braccia che terminano con guanti imbottiti di ovatta per accarezzare da lontano.

Le idee sono originali, ma non mancano congegni aggressivi, terminanti a punte come lance. L’avvicinamento è implicito nel senso profondo di ad-gredior. Più che accarezzare c’è la voglia di ferire, di arrabbiarsi con l’altro ritenuto ‘untore’, colpevole, nemico da abbattere. L’idea di fondo è una mancata distinzione tra pericolo reale e pericolo immaginario. Nella discussione finale si parlerà di proiezioni, difese, persecutore…

Conclusione

Al termine di ogni sessione, le creazioni venivano condivise sul gruppo WhatsApp creato per l’occasione. Tutti possono commentare i lavori pubblicati.

È stata l’occasione per molti scambi tra il gruppo e noi arteterapeuti. Questi collegamenti a distanza intorno all’arteterapia sono stati di importanza inestimabile in questo periodo di isolamento.

I temi affrontati si sono andati evolvendo. All’inizio si trattava di servirsi in modo originale e artistica di elementi della vita quotidiana della persona, come spostare l’arredamento o disporre le sedie in funzione simbolica poi le sedute sono state orientate all’immaginazione. Ad esempio, alcune sessioni sono state dedicate alla realizzazione di progetti ibridi. L’idea era di associare e fondere 2 elementi che non avevano alcun legame a priori tra loro. In gruppo, pur distanziati geograficamente, è stata l’occasione per rappresentarsi presenti attraverso stratagemmi artistici.

Da sottolineare ciò che abbiamo osservato quando sono riprese le attività in presenza in Artelieu nella pausa tra un lockdown e l’altro. C’è stato chi è rimasto deluso dal dover rinunciare a queste sessioni creative virtuali. Molti continuano a creare disegni da soli e a condividerli nel gruppo WhatsApp. La relazione virtuale creata durante la reclusione continua. Un segno che l’idea di frequentare virtualmente i laboratori è stata preziosa per il gruppo. E non solo per facilitare l’espressione.

Esprimere non è che mettere fuori quello che si è, mentre creare un’opera è aggiungere qualcosa di nuovo, è cambiare il senso della propria esistenza, è cercare di esistere attraverso l’opera, è porsi davanti a se stessi. L’opera d’arte va oltre il suo autore, l’opera è un evento che apre un mondo, trasformandoci. La conquista di se stessi attraverso il lavoro consiste nel diventare altro e non nel tornare al medesimo. Non si tratta di mantenere se stessi, ma attraverso il lavoro e le diverse impressioni del proprio potenziale, realizzare qualcosa di sé che prima non si era integrato. L’arte non registra il mondo, ma dà un surplus di significato, trasforma se stessi e il mondo vissuto. Uscendo da se stessi e tornando a se stessi, arricchiti dal viaggio compiuto, la nostra realtà si trasforma e noi stessi di conseguenza. “Creando un’opera, tutto accade come se l’Uomo mandasse il suo dubbio immaginario a portare a termine la sua ricerca, avanzando sulla scia di se stesso. L’opera si apre ad anticipazioni immaginarie di sé, attraverso figurazioni enigmatiche, diviene come uno scout che segue passo passo l’evoluzione, l’uomo compie un viaggio di andata e ritorno tra se stesso e la sua concretizzazione nel lavoro in cui ogni volta imprime qualcosa del proprio essere, per trovare nuovi modelli di identificazioni” (JP Klein).

Bibliografia

Grignoli L. (2019) Il corpo e le sue ‘gest-Azioni’, Franco Angeli: Milano.

Klein J-P. (2015) Penser l’art-thérapie, Presses universitaires: Paris.