Lettera aperta a tutti i matti

Roberto Lorenzini, psichiatra psicoterapeuta, 1953-2021
© Dominique Fortin

Carissimo compagno matto, svitato, lunatico, demente, scervellato, pazzerello, insensato, dopo trent’anni di lavoro a contatto con le sofferenze dei pazienti intrecciatesi indissolubilmente con le mie sento il desiderio di scrivere al matto prototipico, per rivelargli alcune cose che non ho raccontato a tutti perché non le avevo ancora capite o allora non c’è stato tempo.

Mi rivolgo, dunque, ai vari ansiosi. Agli spaventati in logorante attesa di un abisso senza fondo dove si perderanno definitivamente. Aggrappati ad un sostegno qualsiasi la vita scorre senza che mai l’afferrino, le mani serrate sull’appiglio. Per non morire non vivono. A quelli rattrappiti dall’attesa della sentenza inappellabile di condanna alla solitudine e al disprezzo che per non sbagliare somigliano a cadaveri di ineffabile perfezione. Ai fuggiaschi dalla derisione vergognosi di un esistere che ingombra spazio nel mondo impegnati a scomparire ad occhi severi che non li lasciano mai. Alla grande schiera degli accerchiati da onde di minaccia, striscianti e inaspettati pericoli, malattie, rovesci e perdite che come minuscoli moscerini nel lavandino li trascineranno vorticosamente nello scarico.  In loro mai nessun potere, piccoli e tremanti, prima, o malfermi e stanchi, poi. Cappuccetti rossi nel bosco degli orrori o nonne divorate dal lupo.

Mi rivolgo inoltre ai cosiddetti depressi. Agli affaticati ogni mattina davanti alla grigia montagna brulla da scalare subito ai piedi dell’insonne letto. Tale è la nausea dei sapori e dei profumi della vita che hanno smorzato i sensi, non provano mai nulla tranne la noia. Non mancano di nulla, rimprovera il coro, eccetto forse se stessi.  Tutto è parimenti insensato ripetitivo, già visto. In attesa di finirla vorrebbero solo dormire. Non hanno chiesto di esserci e, offesi, non sono mai entrati in gioco. Senza ricordi ne orizzonti annaspano in un livido dolente presente. Per giunta sono arrabbiati convinti di aver firmato un contratto differente con Dio o un suo delegato. Somari svogliati alla scuola della vita. Deserti inariditi con una pozza asciutta e screpolata nel luogo dell’anima.   

Infine anche a quelli che chiamiamo psicotici, anzi a loro soprattutto che mi fanno sempre battere il cuore. Ai diversi, quelli strani, fatti male, mancanti del software per gli incontri che decidono con la testa ogni mossa per sembrare normali. Non capiscono le bizzarre tradizioni degli umani. Come appena scesi dall’astronave senza il manuale di istruzioni per la terra. Ma ognuno è diverso a modo suo, appunto. Non sono un’unica tribù.

Alcuni si avventurano in mondi privati senza altri condomini e vicini. Cancellano le tracce borbottando in compagnia di se stessi e smarriscono la strada del senso comune.

Altri costretti alla ribalta per riempire lo specchio come attori ergastolani non possono scendere dal palco per fuggire un camerino vuoto, freddo con i fiori appassiti.

Certi stanno assediati tra gli agguati di inganni e tradimenti. Sentinelle di tartari in perenne ritardo. Le braccia indolenzite dalla guardia sempre alta. In servizio permanente effettivo, impacciati dalla corazza sono i guerrieri professionisti che temono le conseguenze dell’amore.

Taluni, eterni orfani, si perdono alla vista delle spalle di chi va altrove mai rassegnati alla cacciata dall’originario utero.

Strani tra gli strani quelli che graffiano per abbracciare e s’imbrattano di sangue. La terra intorno sismicamente sobbalza. Pronti ad eruttare da un istante all’altro sono gli inghiottitoi carsici incolmabili dove tutto affonda e mai riempie il vuoto straziante e rabbioso della perduta perfezione unitaria.

All’orecchio di questi pellegrini della sofferenza sussurro che non sono soli, gli sembra soltanto guardando di se stessi il dentro e di tutti gli altri l’esterno rivestito di carta colorata e fiocchi, dentro anche i sorridenti pulsano dolore.

Siamo identici per oltre il 99% sia nei geni che nelle esperienze vissute. Tutto il vostro dolore è propriamente umano, l’essenza stessa dell’umanità che ci accomuna. Diluite l’orgoglio ferito dell’”io” nella quiete comunitaria del “noi”. Immaginate la vostra vita come una dolorosa marcia dal nulla al nulla immersi in un popolo di ugualmente dolenti in faticoso cammino. Nessuno impegnato a trascinarsi avanti ha tempo e voglia di darvi la pagella.

Talvolta ci si appoggia l’un l’altro si mischia fiato e sudore. Ogni tanto brilla una stella, il gelo stiepidisce, il terreno si ammorbidisce. Rari momenti da collezionare, assaporare e conservare nella memoria. Per tutti gli altri raccontatevi una storia epica che gli dia, ingannandovi, un senso. Che la fantasia benevola addolcisca la realtà quando si fa più aspra (noi non lo chiameremo delirio). Per quanti errori vi riconosciate non avete combinato nulla di grave, siamo troppo ininfluenti per essere dannosi. I vostri nipoti stenteranno a rammentarvi il nome.

Perdonatevi e vogliatevi bene. Viziatevi di coccole come una madre che assiste il figlioletto leucemico agli ultimi giorni. Acchiappate tutto senza rinunce che questa non è la prova generale ma l’unica nostra vita.

Quando il dolore si fa più acuto pensate che non dura e tutto passa e dopo sarà pressappoco come prima di nascere che non era poi male.

Naturalmente continuate a venire da noi terapeuti per darci da mangiare, farci sentire sani e non lasciarci soli sul nastro trasportatore in attesa della caduta a fine corsa.