L’utilizzo di animali nei laboratori di arte terapia con bambini

Barbara Cipolla

Convegno L’animale nella psiche - Chieti, 6 ottobre 2013

Abstract

Nella psicoterapia con i bambini, e in particolare in arteterapia, le immagini degli animali sono un mezzo fondamentale per indagare lo stato mentale dei piccoli pazienti e per catalizzare dinamiche intrapsichiche molto primitive. Nei laboratori di arteterapia, che conduciamo da molti anni con bambini in età scolare, utilizziamo l’evocazione di animali reali e/o immaginari che, attraverso il disegno, la pittura, la creazione di sculture in argilla, l’invenzione di storie, la drammatizzazione, parlano delle relazioni di questi bambini con gli altri e con il proprio mondo interno. Essi possono identificare parti di sé in un animale ed agire attraverso la costruzione di un carattere che li rappresenti, o anche lavorare sul dialogo tra un aspetto più primitivo che aggredisce -o viene aggredito- e una istanza più matura di persona che sa costruirsi una tana che lo protegga; possono interpretare un animale antropomorfo in una storia che sia una traduzione, non consapevole, in immagini visibili, dalla forte carica emotiva, della propria autobiografia o meglio delle proprie immagini intime (simile a quello che con gli adulti è la creazione della metafora). Nel laboratorio di arteterapia non portiamo immagini di animali imposte dall’alto o preconfezionate ma cerchiamo di dare vita ad un mondo fantastico che utilizzi creativamente i materiali forniti dalla realtà. Attraverso l’identificazione con i personaggi/animali che il bambino in quella fase della sua vita sente più vicino a sé, al suo mondo interiore, è possibile trovare un significato e costruire un altro pezzo della propria identità, affiancati dal testimone-arteterapeuta. Attraverso la presentazione di stralci di casi clinici e foto mostreremo come il corpo del bambino racconti la sua storia attraverso la scelta di un animale e il terapeuta, successivamente, possa aprire un dialogo tra l’Io e le sue immagini.

Intervento

In questo lavoro vogliamo presentare il nostro approccio al lavoro clinico con i bambini e descrivere soluzioni tecniche, messe a punto negli ultimi dieci anni nei laboratori dell’Associazione Artelieu, riguardanti la presenza e l’utilizzo di immagini di animali nella psiche infantile.

Il discorso clinico che vogliamo affrontare non può prescindere da alcune premesse che sottendono le proposte che vi mostreremo in brevi vignette cliniche tra poco e che hanno a che fare con l’uso dei simboli, del linguaggio e della fantasia in arteterapia.

Il bambino prova un grande interesse verso il mondo degli animali e in questo naturale interesse si può trovare un importante canale di coinvolgimento nell’ambito di una psicoterapia individuale, e a maggior ragione nei gruppi di arte terapia.

Noi solitamente offriamo al bambino uno stimolo immaginativo, uno spunto per iniziare, tratto da tutto ciò che “circola” nella relazione nel momento dell’incontro, ponendo un’attenzione fluttuante soprattutto al comportamento non verbale: posture, gesti, silenzi, espressioni del viso, oppure, se il linguaggio è alla sua portata, frasi lanciate verso il terapeuta o il gruppo.

Nel nostro laboratorio di arteterapia con i bambini le immagini degli animali emergono spessissimo sotto forma di disegni o di storie che vengono costruite dai bambini e dall’arteterapeuta in un processo di co-costruzione che avviene sempre nel qui ed ora della seduta. Il terapeuta propone una cornice, un contesto in cui ogni bambino è libero di immedesimarsi e mettere in scena animali reali o immaginari; nei giochi che essi svi­luppano, sia singolarmente che in gruppo, non si utilizzano mai fiabe già scritte e predeterminate né vengono assegnate caratteristiche troppo standardizzate e generali agli animali scelti che spesso vengono utilizzati in modo molto particolare con alchimie di più caratteristiche prese da immagini diverse amalgamate (ad esempio il leone-aquila, o il cane-squalo… e chi più ne ha più ne metta). In questo viaggio nell’Immaginario il bambino sceglie il materiale con cui esprimere le proprie immagini (disegnare, dipingere, maneggiare la creta, costruire, ritagliare…) e viene accompagnato, sostenuto, e qualche volta lasciato libero, di mettere in scena le potenzialità, i desideri, i limiti e le paure rappresentati dai vari personaggi più o meno benefici/malefici che lui sentirà il bisogno di introdurre.

Spesso alla creazione del personaggio si accompagna la drammatizzazione, sotto forma di gioco di ruolo, di emozioni e pensieri; il risultato è la visualizzazione di una storia che sembra una traduzione, non consapevole, in immagini visibili, dalla forte carica emotiva, della propria autobiografia o meglio delle proprie immagini intime (simile a quello che con gli adulti è la creazione della metafora). Le immagini, derivate dalla realtà e trasfigurate, si muovono, assumono forma e vita propria, si scompongono in elementi più semplici e si ricompongono in unità complesse e diverse dalle precedenti. E’ questo un inarrestabile ed infinito gioco di produzione immaginaria a cui sono associate sensazioni, emozioni e profondi turba­menti dell’animo.

Uno stralcio di una successione di sedute di arte terapia:

Un bambino di 7 anni, Romi, adottato dal sud-America, arrivato in Italia da due anni e da pochi mesi nel nostro laboratorio di arte terapia, interpreta ripetutamente in più sedute la parte del leone. Sceglie un animale dinamico, forte, inattaccabile che può spaventare tutti gli altri. Non c’è possibilità di dialogo e gioco con nessun altro personaggio scelto dagli altri bambini e dalla terapeuta; il leone ha sempre fame e divora tutto e tutti senza tregua. E’ presente forte la necessità di una scarica motoria e l’impossibilità di usare parole. In una seduta la terapeuta prova a introdurre un personaggio non animale ma umano, un esploratore, che vuole scoprire come mai il leone ha così tanta fame e lo osserva da lontano nella giungla, è curioso di sapere da dove arriva questo leone. Questa proposta apre uno scenario del tutto nuovo nel bambino che decide nel corso della seduta di voler essere addomesticato, adottato e portato a casa da due esploratori che si affezionano a lui. Nella seduta seguente arriva con una idea precisa di cosa deve fare e propone un viaggio in nave con gli esploratori. Chiede di essere messo in una gabbia sulla nave perché dice che il leone comunque “era sempre pericoloso” e vuole rompere la gabbia per aggredire tutti. Nel gioco prova piacere a ripetere più volte la scena in cui si arrabbia e cerca di rompere la gabbia e i marinai lo bloccano fisicamente per impedirgli di diventare pericoloso. La terapeuta prova a sondare lo scopo del viaggio in nave e Romi dice che gli esploratori stanno riportando il leone nella sua giungla di origine dove lui era stato ferito per sbaglio dalla madre leonessa e si era perso. Le sedute che si succederanno avranno sempre come protagonista il leone che scappa e rischia più volte di morire, trova qualcuno che lo salva ma non riuscirà a tenerlo fermo lì in una relazione stabile e duratura perché lui riparte e ritorna sempre nei luoghi da cui è partito.”

Nel “bestiario” psicoanalitico abbiamo tante citazioni illustri di animali attraverso casi clinici; tra i pazienti bambini ricordiamo il cavallino del piccolo Hans di Freud e il gallo del piccolo Árpád, di cui parla Ferenczi.

Freud, grande amante dei cani, fin dalle origini della disciplina psicoanalitica, si trova ad esplorare nei sogni suoi e dei suoi pazienti, nelle fantasie inconsce, nel pensiero magico-religioso dei popoli primitivi, nella simbologia degli artisti, la straordinaria gamma di significati che cani, gatti, cavalli, belve ed insetti arrivano ad acquistare nel nostro scenario interiore.

Come ci mostrano le storie di Hans e Árpád, molto significativa appare la simbologia animale nel mondo fantasmatico del bambino. Nell’immaginario infantile gli animali occupano un posto di grande rilievo, come si vede dalle loro fiabe, dai loro racconti e dai loro sogni. Il bambino pensa attraverso le fantasie e ha bisogno di immagini e dl personificazioni per esprimere le sue emozioni. Gli animali sono una rappresentazione privilegiata delle emozioni più primitive e delle angosce più profonde. Essi personificano aspetti del Sé e rappresentano oggetti significativi del mondo esterno del bambino.

Popolato di animali di ogni tipo è anche l’universo infantile che ci presenta Melanie Klein, allieva di Ferenczi e di Abraham, che anziché curarli per via indiretta tramite la mediazione di un adulto come aveva fatto Freud con Hans, applica direttamente la psicoanalisi ai bambini e può così accedere ai livelli più profondi dei vissuti affettivi e mentali. Nella Psicoanalisi dei bambini, la Klein mostra come negli animali pericolosi siano proiettati aspetti violenti e sadici del Sé. E che a volte un animale domestico, nell’immaginazione dei bambini, può occupare il posto dell’oggetto “soccorritore” contribuendo a far diminuire l’angoscia; e lo stesso può fare una bambola o un giocattolo raffigurante un animale, cui spesso i bambini assegnano la funzione di proteggerli durante il sonno (pensiamo al Teddy bear, l’orsacchiotto reso famoso da Winnicott come oggetto transizionale).

La miriade dei significati e delle funzioni degli animali diviene ancora più ampia nella “Analisi di un bambino”, il resoconto dettagliato di un caso di psicoanalisi infantile, seguito dalla Klein nel 1941 e pubblicato postumo nel 1961. Richard, il bambino di dieci anni, analizzato dalla Klein, sembra a volte potersi esprimere compiutamente soltanto attraverso la simbologia animale. Richard infatti, parlando degli animali, riesce a manifestare le sue emozioni e le sue angosce più profonde. Ci si trova di fronte a un universo colorato e vario di cani, gatti, mosche, api, aragoste, polipi ecc. ecc.

Nei diversi animali prendono corpo le fantasie del bambino che riesce così ad esprimere i suoi sentimenti, i suoi impulsi e i suoi desideri. La Klein scrive: “Uno dei vantaggi della tecnica del gioco, particolarmente con giocattoli piccoli, è che, esprimendo attraverso tale mezzo una grande varietà di emozioni e situazioni, il bambino si trova nella condizione migliore per mostrarci gli avvenimenti del suo mondo interiore”. Questa considerazione della Klein credo possa riferirsi in particolare ai piccoli animali e alla possibilità rappresentativa che essi forniscono al bambino. Nella stanza di analisi di Richard non ci sono comunque solo gli animali giocattolo, ma anche i suoi racconti e le sue fantasie sul mondo animale. C’è innanzi tutto Bobby, il cane di Richard, che morde il papà, prende il suo posto presso la mamma, ha i suoi cuccioletti e la sua famiglia. Bobby è così il piccolo Richard-Edipo, che si identifica con il papà e ne prende il posto.

Sebbene riteniamo fondamentali le indicazioni della Klein sulla tecnica del gioco, nei nostri laboratori di arte terapia riteniamo importante non far trovare giocattoli pronti e precostituiti ai bambini, né marionette di personaggi famosi delle fiabe e già ricchi di significati. Preferiamo, avendone sperimentato l’efficacia e la differenza in campo clinico, far costruire al bambino il personaggio o l’oggetto che sarà utilizzato come simbolo, o concretamente con materiali di vario genere o rappresentandolo con il corpo e la voce, lasciare quindi uno spazio aperto perché possa emergere il discorso personale di quel bambino con le sue immagini per rappresentarlo e dargli forma.

Per poter capire come i bambini percepiscono gli animali bisogna innanzitutto prendere in considerazione la concezione che I'uomo odierno ha nei confronti degli animali, sondare I'immaginario. L'immaginario collettivo influenza direttamente la rappresentazione dell'animale: in questo senso il modo in cui l'immagine dell'animale viene trasmessa al bambino è condizionante.

Intanto l’adulto trova delle somiglianze tra bambino e animale, rafforzate dai pedagogisti attraverso gli studi dei numerosi enfants sauvages (citiamo il più famoso, Victor, "l'enfant loup" studiato da Itard): il bambino non ha ancora acquisito rispetto all’adulto tutti i codici e le norme della vita socializzata e in questa fase caratterizzata dalla spontaneità, dal bisogno di esplorazione, dall’incapacità di aspettare, di celare desideri e bisogni, di dar forma ai pensieri attraverso un linguaggio verbale, viene considerato più vicino all’animale che all’uomo. Aristotele scriveva nell’VIII libro dell’Historia animalium: “(…)nei fanciulli è possibile vedere le tracce e i germi delle loro future disposizioni, e la loro anima non differisce,  per così dire, affatto dall’anima delle bestie in questo periodo, in modo che non c’è niente di assurdo nel pensare che certi aspetti psichici siano gli stessi nell’uomo e negli altri animali, certi altri presentino delle forti somiglianze, certi altri ancora abbiano dei rapporti di analogia.”

Nell’antichità classica l’animale era soprattutto un soggetto «buono per pensare», una pietra di paragone per pensare l’identità stessa dell’uomo, per mettere in risalto – per scarto – una sorta di essenza caratteristica di quest’ultimo.

La prima differenza, al contempo fondatrice e organizzatrice dell’umano, non è quella dei sessi o delle generazioni, bensì oppone l’uomo all’animale, l’alto al basso, l’anima al corpo.

In questa operazione di discrimine il linguaggio sembra essere uno strumento fondamentale,  sia nell’aspetto strettamente cognitivo, nel quale il logos-linguaggio si identifica con il logos-ragione, sia in quello più specificamente legato a fattori materiali, come l’aspetto articolatorio e acustico della fonazione.

Prima ancora di nascere l’uomo è immerso, oltre che nel liquido amniotico, anche nell’Universo del linguaggio; quando, neonato, uscirà dal tunnel del canale uterino verrà catapultato nel mondo che non ha più a che fare con la Natura ma si troverà nel Mondo della Cultura, dove ogni elemento esiste alla luce della parola che lo qualifica. Ci ricorda Lacan che la nascita biologica non basta per essere umani: per il fatto di essere parlante fin da subito l’uomo sperimenta una condizione di alienazione, l’alienazione viene ad essere la condizione originaria strutturale. Alla nascita dunque si entra nel mondo delle Parole senza saperne niente, sarà l’Altro, tutti gli altri della parola, che ci avvieranno lungo il cammino della conoscenza, del sapere, ma Lacan va ancora più avanti e ci dice che la conoscenza non basta, la Ri-Nascita è tale se avviene nell’ordine del senso, vale a dire che ogni nuovo nato può accedere alla propria soggettività nel momento in cui a tutti i Significanti con cui viene bombardato darà un proprio significato, un proprio senso, a partire proprio da quel significante primo, il Nome proprio, che gli viene assegnato dagli altri e di cui non ha coscienza inizialmente.

Il nostro interesse di psicoterapeuti e arteterapeuti, lavorando sia con bambini che con adulti, ed utilizzando varie modalità comunicative con i pazienti, da quelle verbali a quelle iconiche a quelle corporee, si è molto centrato sull’efficacia e le funzioni del linguaggio verbale e del linguaggio iconico sia come mezzi per esprimere e comunicare i pensieri che come strumenti di una relazione analitica trasformativa.

Seguendo la teoria di Bion, ripresa da Armando B. Ferrari, crediamo che sotto la spinta dell’esperienza emotiva in ognuno di noi i pensieri crescano e si organizzino e che quando sensazioni ed emozioni saturano la mente non c’è più possibilità di pensiero.

“Ognuno di noi può avere il sentore inquietante dell’esistenza in fondo a se stesso di un nucleo mai raggiungibile e mai pienamente dicibile. E’ la dimensione della fisicità. Sappiamo però che da questo nucleo emanano continuamente sensazioni capaci di raggiungere la percezione e di generare emozioni, dando origine a quell’insieme complesso di funzioni che chiamiamo corporeità ed è dalla corporeità che va progressivamente emergendo quel complesso insieme di funzioni che chiamiamo psichicità, che ha il compito di proteggerne il funzionamento attraverso l’attenuarne l’intensità sensoriale” (F. Romano, 2013).

In ognuno esiste dunque la necessità di dare una forma, di rendere dicibili gli accadimenti e le vicissitudini dello svolgersi del complesso rapporto tra la propria corporeità (che Ferrari chiama l’Uno) e la propria psichicità (che Ferrari chiama Bino, funzione cardine tra la corporeità e la cultura in cui viviamo).

E’ in questa necessità che Ferrari pensa al formarsi in ognuno di quello che egli definisce il mito personale (A. B. Ferrari, 2005).

Il mito, che nel suo significato etimologico significa parola, discorso, racconto, in ogni cultura ha rappresentato la possibilità di raccontare eventi inspiegabili relativi alle origini del mondo o alle modalità con cui il mondo stesso ha raggiunto la sua forma attuale, prima che comparisse la parola scritta. Allo stesso modo, spiega Ferrari (2005), all’interno di ogni individuo esiste la necessità di “raccontare”, più che altro coagulare in una forma mitica non ancora dicibile l’essenza del farsi della propria storia nel passaggio dalla corporeità alla psichicità.

Il mito personale, dunque, raccoglie e coagula quanto dell’esperienza emergente dalla corporeità tende verso il raggiungimento di una piena dicibilità e include vari stati emozionali connessi alla liberazione e alla salvezza dalla paura, alla soddisfazione di un desiderio o di una speranza, ecc.

In questo senso il mito personale è considerato matrice del linguaggio individuale.

Ed è questo linguaggio individuale di ognuno che la relazione analitica tende a disvelare e ad attivare al tempo stesso, talvolta contribuisce a costruire.

Nei momenti di fortissima disarmonia, la possibilità di ricorrere alla fantasia, che siano fantasie di tipo concreto o di tipo astratto, soltanto momentaneamente ottiene lo scopo di de-saturare lo spazio mentale. Le cose rimangono cose e non è possibile contenere nella mente oggetti concreti. E’ necessaria, perciò, una adeguata capacità di trasformarli in simboli, in nomi. Nominare a sua volta può assumere la funzione di far esistere, di fare presente. Si va attivando in tal modo la indispensabile comunicazione tra sensazioni ed emozioni marasmatiche e la possibilità di dire, di dare nome (Ferrari, 1992).

Esiste una relazione reciproca tra la formazione del linguaggio e quella dei miti.

Mito, arte e linguaggio contengono la potenzialità di divenire simbolo.

Ciascuna di queste forme, come afferma Cassirer (1923), non sono né sublimazione di un mondo di realtà, né semplici raffigurazioni della fantasia, ma rappresentano e non solo per la coscienza primitiva, la totalità del reale.

L’ipotesi che teniamo presente nel nostro lavoro clinico è quindi che il bambino, nel corso del suo sviluppo, sia continuamente alla ricerca di un modo adeguato per governare, conoscere e nominare la realtà, sia quella esterna che lo circonda, che quella interna, proveniente dal suo corpo. I suoi strumenti di conoscenza si modificano continuamente ma l’ambito da governare è sempre più ricco di variabili.

L’immaginazione e l’identificazione, oltre a rappresentare una vera e propria esigenza psicologica, sono un mezzo efficace per dar vita e sviluppo agli stati emozionali dell’animo, costituiscono uno degli elementi fondamentali ed indispensabili della psiche umana, in particolar modo di quella dell’infan­zia, per avere la possibilità di cogliere e di costruire nel contempo la propria vita interiore, sono un principio fondamentale per la genesi della coscienza.

Possiamo cogliere l’importanza del significato emotivo e rappresentativo degli animali anche nelle vicissitudini che i pazienti, sia bambini che adulti, portano in terapia parlando dei loro cani/gatti o animali domestici reali. A volte raccontano di importanti esperienze che li toccano profondamente attraverso i racconti dei loro animali.

Un bambino di 10  anni arriva molto preoccupato in seduta perché dice di aver guardato a lungo la sua tartaruga in letargo per capire se effettivamente dormiva o era morta. Non riusciva a trovare la differenza e questo lo angosciava molto.

Una bambina di 8 anni mi dice di aver visto un gatto morto per strada e di aver pensato che la stessa cosa potrebbe succedere anche al suo gatto che sta a casa con lei e non lo sopporterebbe mai. Una ragazzina di 11 anni racconta che lei ama molto i suoi cuccioli di cane ma non vuole che crescano, vuole prendersi cura di loro perché sono delicati e non aggrediscono, giocano e la leccano. Ha paura che possano diventare “meno bravi” crescendo.

Davanti al nostro laboratorio, che è in piena campagna, ci sono spesso dei gatti sia adulti che cuccioli e succede che i bambini osservino prima di entrare questi gatti ed entrino in rapporto con loro facendoli diventare parte integrante dei loro discorsi durante la seduta di arteterapia. La maggior parte dei bambini si preoccupa di dar loro un nome anche se sono randagi.

Se nella prima infanzia è l’orsacchiotto di peluche a placare il senso di distacco del bambino dalla madre, mano a mano che i bambini crescono, cani e gatti reali verranno a occupare questo potenziale ‘spazio intermedio’ tra loro e il mondo degli adulti: essi diventano una compagnia, una protezione, un conforto, un giocattolo vivo, da imparare progressivamente ad amare in modo meno tirannico ed a rispettare nella loro individualità. Come se si realizzasse una sorta di “area transizionale”, peculiare per consentire lo sviluppo delle relazioni tra mondo interno e mondo esterno, l’animale diventa oggetto sia di identificazione, sia di possesso e di investimento affettivo, in un intreccio di aspetti ‘narcisistici’ e di aspetti ‘oggettuali’, luogo aggregante di nuclei di sé e intermediario prezioso delle relazioni con gli altri. Il vero ‘rapporto oggettuale’, di totale riconoscimento dell’altro nella sua oggettiva realtà, è forse soltanto un’astrazione. Un rapporto riuscito - con creature umane o con creature di altra specie – è in fondo un’alchimia di ‘quote’ oggettuali e simbiotiche. Ciò che conta è però che nelle relazioni - quali che siano i livelli implicati o le fantasie sottostanti – si riservi uno spazio all’altro per esprimersi, vivere, funzionare a suo modo; ed anche uno spazio a noi stessi, per la nostra curiosità di scoprire le cose nuove e sconosciute che l’altro ci può mostrare. Imparare a stare con un animale implica un traguardo maturativo nel bambino, quello cioè di conoscere l’alterità, di poter accettare che l’altro è diverso, distinto e separato da noi e non rifiutarlo per questo, quale che sia la sua diversità: sesso, razza, che parli un’altra lingua, o che abbia la coda.

Tralasciando qui di rivolgere la nostra attenzione sugli aspetti propri delle fiabe e su aspetti specifici della vita del bambino, come il gioco, l’attività grafico-pittorica, il racconto, vogliamo fare alcune rapide considerazioni ge­nerali sulla produzione fantastica nell’età detta della latenza; appunti e riflessioni che possono valere per ogni forma di vita o di produzione mentale caratterizzata dalla fantasia, non solo riferita alle immagini di animali.

La prima riflessione ci porta a ribadire il principio secondo il quale l’attività fantastica svolge una funzione equilibratrice nel complesso sistema della vita psichica del soggetto. Venendo a contatto con la realtà, il bambino si imbatte in una serie di difficoltà e di avversità che vive in modo drammatico, sperimentando l’asprezza e la violenza del mondo della concretezza. Inevitabili emergono delle fru­strazioni che potrebbero portare il soggetto a concepire il reale in modo ineluttabilmente pericoloso ed ostile. Ma la fantasia permette al bambino di rendere flessibili ai propri desideri ed aspettative le manifestazioni reali, attraverso la trasformazione fantastica dei dati, degli oggetti e delle vicende concrete.

Un’altra riflessione è che l’animismo infantile e l‘antropomorfismo sono modi per dar vita a cose inanimate o umanizzare oggetti ed animali, ma anche per trasfigurarli secondo proprie esigenze e aspettative. Con la fantasia, il reale pericoloso ed avverso viene esorcizzato e in tal modo vengono neutralizzati conflitti e frustrazioni.

Davide, 6 anni, si trasforma sempre in animali potenti che possono stare sia in cielo che in acqua, e si attribuisce poteri soprannaturali per essere immortale. Inizia quasi sempre da una tigre; man mano che i suoi compagni di gioco e la terapeuta inseriscono ostacoli al suo potere e al suo desiderio illimitato di possesso, lui inventa nuove strategie difensive e aumenta le sue qualità, si concede l’invisibilità, barriere impermeabili, sputa fuoco, ha infinite vite… L’unico modo per stabilire un contatto con lui è fargli dei regali o sottomettersi, non concepisce alleanze o rapporti paritari, preferisce sentirsi “solo contro tutti”.

Il   bambino in età di latenza non può sottrarsi al fascino di un mondo magico, in cui le immagini e le rappresentazioni non ob­bediscono, così come accade nel sogno, alle leggi e alle regole della ragione e dove, diversamente dalla vita reale, tutto può andare al dì là delle determinazioni del tempo e dello spazio, oltrepassando i limiti della logica.

Potere della fantasia è quello di inventare situazioni e fatti che sono favorevoli al bambino: egli crea e trasforma questo mondo a suo piacere, secondo i suoi sconfinati desideri e le sue innumerevoli esigenze.

Gabriele, 5 anni, durante le sedute di arte terapia in gruppo, si trasforma, a prescindere dalle situazioni di gioco, ma a seconda del suo stato d’animo, in un cane grande, che vuole azzannare tutti, o in un cane piccolo, bisognoso di compagnia e di attenzioni. Per molto tempo non c’è spazio per la parola e per collocarsi dentro una storia che abbia una sequenza temporale definita, c’è solo la fissità di due posizioni che descrivono una attitudine attivo/passivo, potente/fragile, nella relazione a due. Il lavoro della terapeuta, attraverso il disegno dei due cani in varie prospettive e situazioni, la rappresentazione di stati d’animo diversi provati sia nel ruolo cane-grande che in quello cane-piccolo, va nella direzione di creare movimento e dinamicità in questo bambino-cane e rimettere in discussione la polarizzazione e la fissazione in una antinomia rendendo compatibili le due posizioni in una storia dove si possano alternare e integrare senza escludersi l’un l’altra.

La rielaborazione dei contenuti emersi avviene attraverso il gioco, il disegno, la costruzione di un’altra storia, momenti nei quali inserire, con delicatezza e rispetto, elementi di aiuto utili ad attribuire significato, attraverso il linguaggio simbolico del gioco, dell’immaginario, del sogno. Il lavoro dell’arteterapeuta non è tanto nel comprendere i contenuti che celano le storie o i disegni dei bambini, ma nel creare ponti, facilitare movimenti tra le varie parti, dare la possibilità di sperimentare nuove coloriture emotive all’interno della relazione. Il gioco, la fiaba, il disegno, la drammatizzazione sono un modo di trovare contemporaneamente la sofferenza e la consolazione ad essa.

Come si evince dal discorso appena fatto, l’immagine dell’animale nel nostro  lavoro arte-terapeutico col bambino ha valenze plurime che vanno analizzate nel contesto di ogni relazione terapeuta-bambino e all’interno di ogni storia individuale. I brevi esempi riportati non hanno lo scopo di descrivere una storia clinica o una modalità esaustiva di lavoro ma descrivono piuttosto il lavoro compiuto da questi bambini nel tentativo di affrontare le angosce della crescita e nello sforzo di portare avanti la ricerca della propria identità; per poter dialogare con se stesso il bambino deve poter prendere una distanza emotiva dalle proprie esperienze così da osservarle senza essere sopraffatto dall’angoscia: l’utilizzo della simbologia animale permette di manifestare emozioni e angosce profonde, ma anche di affermare bisogni basali, esigenze vitali che condividiamo con gli altri esseri animali, -vale a dire quelle esigenze naturali garanzia della sopravvivenza della specie e dell’individuo, - senza sentirsi in difficoltà. Il lavoro dell’arteterapeuta è quello di utilizzare in modo complementare e graduale i diversi strumenti di comunicazione possibili, partendo dal registro di linguaggio che il bambino possiede, di solito molto poco verbale, imparandone le regole e cercando di comunicare attraverso questo, e poi guidandolo verso una possibilità sempre maggiore di comunicazione verbale senza forzare i tempi. Assumiamo l’animale scelto dal bambino come punto di partenza per costruire un vocabolario comune con lui e per poter accedere alla sua corporeità in modo diretto e ci proponiamo di osservare in che modo la mente del bambino usi quelle emozioni e quei gesti per dare forma al suo mito personale e per comprendere i suoi significati soggettivi.

Da una storia creata in gruppo dall’arteterapeuta con cinque bambini di 7-9 anni: “ Sulla Terra abitavano animali di tutti i tipi che non si conoscevano tra loro perché abitavano su tante isole separate dal mare. Un giorno dal centro della Terra uscì una lava pericolosissima e bollente che invase tutte le isole. Chi non sapeva nuotare annegò, alcuni impararono a nuotare e gli crebbero le pinne, altri si ripararono sull’unica isola rimasta e si incontrarono. Alcuni potevano diventare amici ma altri no perché si dovevano mangiare tra loro, erano carnivori. Lo spazio era poco per tutti e quelli che ce la fecero furono: il dinosauro più leggero con le ali, lo squalo-tigre, la zanzara velenosa, l’orca assassina, il camaleonte-puzzola.” Ogni bambino ha prima inventato e poi costruito uno di questi animali definendone bene le caratteristiche fisiche, il verso, la gestualità, le capacità, i punti deboli, il tipo di cibo e di habitat per dormire….. ed evincendo le risorse necessarie per sé per sopravvivere a seconda di come gli altri bambini andavano definendo le loro. Ognuno ha scoperto molti modi di attaccare e difendersi, di ripararsi e nutrirsi, di allearsi o allontanarsi. Ogni bambino ha sperimentato una vasta gamma di tonalità emotive e di modi di esprimerle. Il momento più toccante è stato quando l’arteterapeuta ha chiesto di disegnare l’isola su un grande cartellone e far in modo che ognuno avesse abbastanza spazio per muoversi, ma che ci fossero anche delle vie di comunicazione da una tana all’altra. Lì sono venute fuori le idee più simpatiche della storia perché ognuno cercava le risorse nell’altro e non c’era più l’urgenza di nascondersi ed attaccare. Così qualcuno ha proposto che la zanzara velenosa fosse il messaggero di tutti perché era l’unica a poter andare in acqua e sulla terraferma, l’orca assassina si è proposta come guardiana di tutto il territorio nel caso arrivassero umani o strani esseri cattivi, il camaleonte-puzzola come guardiano del faro perché si mimetizzava meglio in alto, al dinosauro è stato chiesto di fare le strade con le sue zampe grandi, allo squalo-tigre di ripulire le coste dalle piante carnivore con i suoi denti aguzzi…

L’arteterapeuta è uomo-animale, anima-corpo, parola-emozione… testimone, garante e promotore di unità e continuità in un processo che vede svolgersi nel suo farsi, è il territorio che unisce le diverse istanze del profondo, che chiede integrazione e convivenza anche agli aspetti più duri e non ancora digeriti della persona.

Bibliografia

  • Cassirer E. (1923), “Filosofia delle forme simboliche”, vol II, La Nuova Italia, Firenze, 1977
  • Ferrari A. B. (2005), “Il pulviscolo di Giotto”, Franco Angeli, Milano,
  • Ferrari A. B. (1992), “L’eclissi del corpo. Un’ipotesi psicoanalitica”, Borla, Roma
  • Klein M. (1961),  “Analisi di un bambino”, Bollati Boringhieri, Milano, 1971
  • Romano F. (2013), La parola nel linguaggio analitico in “Instabili equilibri” (a cura di Radano, Bergerone, Tauriello), ed. Cà Foscarina,Venezia