Amare e sparire: la violenza dell’amore

Laura Grignoli

(articolo pubblicato su www.rivistaimpronte.it)

Uccidere, come scrivere,
è tornare alla propria preistoria
(Philippe Vilain)

In una vetrinetta dello studio dove lui conserva i ricordi, si intravvedono un paio di guanti bianchi a fiorellini rosa.

Pablo l’aveva incontrata al bar Deux-Magots. Rimase colpito da quella brunetta, seduta ad un tavolino mentre si sfilava i guanti bianchi a fiorellini rosa e faceva uno strano gioco. Con un coltellino affilato colpiva velocemente tra un dito e l’altro della mano senza fermarsi neanche a vedere se si fosse ferita. Vestita di nero, le unghie laccate di un rosso acceso, lei si arrese senza resistere a quel giovanotto dallo sguardo penetrante col ciuffo sulla fronte.

Lei non sapeva che lui trattava le donne o da dee o da pezze da piedi. La sofferenza scatenata in lui dalla guerra civile spagnola lo aveva devastato.

Per quanto riguarda lei, beh, quello strano gioco riassume la vita di questa bellissima fotografa che divenne presto la musa ispiratrice di tanti dipinti di Pablo. La loro fu una relazione emblematica di un rapporto sado-masochistico come tanti ne osserviamo ogni giorno. Molti vanno a finire sulla cronaca nera.

La rilettura della biografia di donne famose non solo per la loro arte, ma per la violenza che ha contraddistinto le loro vite o la loro morte, mi induce a fare riflessioni sulla natura dell’amore passionale. Da dove trae la forza? Da quale momento la vittima nella coppia ha iniziato a sentirsi impotente?

La relazione passionale violenta trae la sua forza distruttrice dal primo attaccamento del bambino a sua madre quando è impotente e incompleto. L’altro, onnipotente, si confonde per lui con l’immagine della morte quando il genitore abusa della sua posizione di potere di fronte a lui, piccolo, impotente e vulnerabile. Dunque, si cresce nel dolore oppure si sparisce.

Questa asimmetria spesso si ripete nelle relazioni amorose, quando uno dei due è messo in situazione di essere assoluto, come fu allora la madre per il piccolo.

Quando nella passione uno si consegna all’altro deve sapere che sta consentendo la propria sparizione.

La passione è il luogo dell’impossibile, perché nega o contorna il sentimento amoroso di una solitudine essenziale, creando la figura dell’altro come essere inseparabile, idealizzato. La distinzione tra l’oggetto del bisogno e l’oggetto del desiderio si sfuma.

Ma torniamo alla storia del Maestro che fagocitò la Musa.

Dora Maar è ‘La femme qui pleure’ di un famoso dipinto di Picasso. Ma lui la vede così la sua amante? Decomposta e sfigurata dal dolore che lui stesso le infligge? Lui ha sempre saputo che non avrebbe potuto stare senza di lui.

Un giorno Henriette Theodora Markovich, meglio nota come Dora Maar, è internata da Lacan (sollecitato dal surrealista Eluard amico di Picasso) in un ospedale psichiatrico a Parigi, dopo aver aggredito il suo amante in pubblico perché ne aveva piene le tasche dei suoi soprusi.

Dora vaga a piedi nudi, crede essere la regina del Tibet. Viene ripudiata, senza il suo uomo si frantuma in mille pezzi. Dopo un breve ricovero in psichiatria in un ospedale pubblico, viene seguita da Lacan in una clinica privata. Lo psicanalista all’epoca seguiva casi di paranoia femminile e abbiamo motivo di pensare che fu dopo il caso Dora che formulò la teoria dello stadio dello specchio.

Nello specchio o nello sguardo di sua madre il bambino incontra un’immagine ideale, che gli permette di emergere da una indifferenziazione primaria da un mondo percepito come frantumato. Quest’incontro lo inganna, perché lui si vede come un altro reale, un altro che lui odia prima di arrivare a riconoscersi.

Le dinamiche della relazione tra Picasso e Dora Maar mostra molto bene questa presa nell’immaginario. Almeno in lei. Lei si presta allo sguardo penetrante e frammentante di colui che lei mette al posto di Dio. In questa relazione lei diventa una vera e propria ‘macchina per soffrire’, riporta Alicia Dujovne Ortiz come parole dette da Picasso nei confronti delle donne. Lei senza di lui si infligge sofferenze masochiste pur di prolungare quest’amore insano, soddisfacendo le sue pulsioni autodistruttive. Dora, che aveva studiato arti decorative, faceva la fotografa ed era molto stimata per lo sguardo originale che aveva sulle cose. Aveva una sua visione del mondo quando conobbe Picasso, lei ventisette anni e lui cinquantacinque. Da questo momento lei passa dallo statuto di ‘guardante’ a oggetto guardato. Lei, che ha guardato e del guardare ne ha fatto un mestiere, per amore diventa modella celebre
del Maestro, ammirata ed esposta. Insomma prima di incontrare lui era indipendente, creativa e sicura di sé. Dopo sarà il declino su tutti i fronti.

Come si spiega questo assoggettamento all’altro e cosa ci ha guadagnato psicologicamente? Da un lato Dora sposa lo sguardo posato su di lei, dall’altro si identifica alla violenza di tale sguardo. Uno sguardo che cambia man mano, passando dall’amore all’odio, dalla seduzione al rigetto. Lo testimoniano i ritratti che le ha fatto Picasso durante il tempo passato insieme. Lei aveva solo un desiderio: quello di mai separarsi da lui. Lei, oggetto dello sguardo ma anche simbolo e significante dei sentimenti del maestro. Lei è l’opera di Picasso nel senso stretto e figurato del termine. Ecco come nella rottura sentimentale si trascina pure la frammentazione dell’identità di Dora. L’Io perduto, annientato, si ricostruisce nel delirio di grandezza che l’esclude e la rimanda alla solitudine essenziale. Picasso ha paura della follia, la getta sulla tela prima di gettar via anche Dora dalla sua vita.

Essere l’amante di Picasso lusinga l’ego di Dora, che si vede immortalata in decine di opere dipinte da lui. La dipinge serena, irritata, addormentata, languida, estatica, disperata, radiosa, sognatrice, isterica. Lei è figlia del suo pennello e man mano che esiste sulla tela, sparisce come soggetto. I ritratti degradano così come degrada la passione di lui per lei. Nel 1939 la rappresenta con la testa frammentata in blu e lilla. Questo dipinto conosciuto come ‘Testa di donna’appare da un lato la parte inferiore del profilo con mento, bocca e naso; dall’altro, separata come un altro continente, con un naso mancante dal prolungamento di una fronte simile alla lampada da minatore e un occhio terrorizzato. Dora è sfigurata, il suo io è multiplo.

Cosa dire? Era lei che si automutilava in questa relazione o l’annientamento ne era la conseguenza? Forse lui non poteva amare se non distruggendo l’oggetto? O era lei che non poteva amare se non distruggendosi? Alla fine lei amerà un assente, un fantasma di cui conserverà gelosamente le opere.

Certo è che lei ha investito lui di onnipotenza, in una forma di attaccamento estremo che permette la soddisfazione di tendenze regressive, preedipiche. L’altro è tutto, io non sono niente, pare dire. E la ‘jouissance’ dell’altro si raggiunge solo con l’annientamento dell’Io. Paradossalmente la rinuncia a se stessi permette di godere del proprio oggetto, di divenire quest’oggetto grandioso.

Già nei ritratti di Dora si intravvedeva la grandiosità, la fragilità e la violenza pulsionale verso la modella. Veniva fuori una Dora come lui la vedeva e non come lei poteva vedersi. Sparita come corpo, appare sulla tela come oggetto eternamente unita al suo creatore, esposta a tutti gli sguardi. Identificata alla sua funzione di
immagine, di simbolo, di significante dell’artista più celebre del secolo, non potè mai sopportare l’ultimo rifiuto.

Lei dirà di lui: Io non sono stata l’amante di Picasso, lui fu mio padrone.

Non era rimpiazzabile. Sopra di lui solo Dio.

Nella violenza sulle donne ricorre sempre la dimensione trasgressiva dove non si distingue la ‘jouissance’, spesso si mescola l’estasi alla sofferenza.

Ho un paziente sul divano che piange l’amore della sua amata che non vuol più saperne di lui e dice che, senza di lei, vuol morire.

Non poso il mio sguardo. Ascolto.

 

Bibliografia

Alicia Dujovne Ortiz, Dora Maar: prisonnière du regard, Grasset, Paris,2003.

Nicole Avril , Io,Dora Maar, Colla Editore,Milano,2011.

Jacques Lacan, De la psychose paranoïaque dans ses rapports avec la personnalité, Ed.Seuil,Paris, 1975.

Jacques Lacan , Le stade du miroir comme formateur de la fonction du Je, in ‘Ecrit, Ed.Seuil, Paris,1966.