C’è ancora spazio per il desiderio?

Laura Grignoli

Relazione convegno Arles, 2 luglio 2011

Prima di passare al cuore del tema di questo incontro sento doveroso iniziare da una premessa che per i presenti non addetti ai lavori è necessaria. La premessa concerne l’entrata nel mondo del simbolico. Se non capiamo questo passaggio non capiremmo neanche l’importanza dell’arteterapia.

Avere un nome: in questo consiste esattamente il passaggio allo stato umano. Se si dovesse definire in quale momento l’uomo diventa umano, diremmo che è nel momento in cui, per quanto poco, entra nella relazione simbolica

Così definisce Lacan il passaggio dallo stato biologico allo stato umano, un Nome, un Significante Il nome qualifica un Soggetto nell’ordine Simbolico, nell’ordine del linguaggio.

Un Poeta proverbiale declama:

Tra l'uomo e l'amore C’è la donnaTra l’uomo e la donnaC’è il mondoTra l’uomo e il mondoC’è un muro.

Dunquetra l’uomo e il mondo c’è il muro del simbolico, il muro del linguaggio. Le cose tutte acquistano esistenza e senso perché nominate, tutto l’universo che ci circonda e l’universo che ci riguarda – il nostro corpo – tutto è ricoperto da Significanti.

Un grande linguista (F.De Saussure) poté affermare che alla fin fine è il mondo delle Parole a “creare” il mondo delle Cose.

Un grande antropologo ( Levi Strauss) è andato ancora più avanti affermando che il linguaggio è ciò che fa struttura per l’essere umano, vale a dire che è il linguaggio che ci ha permesso di determinare i nostri rapporti relazionali, i nostri rapporti di parentela. Sono i significanti che ci consentono di relazionare con l’Altro in maniera differenziata, diversificata a seconda del valore dato, del senso dato al Significante stesso.

A partire dalla nascita

Dal mondo del linguaggio possiamo attingere per dare consistenza e senso prima all’embrione poi al feto fino alla nascita. Tutti questi significati immaginari sono molto importanti in quanto servono a creare lo spazio mentale necessario alla venuta al mondo del bambino Reale, ma quello che qui vogliamo mettere in evidenza è che il bambino ancora prima di nascere già esiste e ha preso forma nel mondo delle parole, è già creato, ovvero è “costruito”nel discorso dell’Altro materno, paterno, nella loro fantasia nel loro desiderio: mi piacerebbe che diventasse avvocato, che fosse biondo, che assomigliasse alla mamma e così via.

Prima ancora di nascere il bambino è immerso, oltre che nel liquido amniotico, anche nell’Universo del linguaggio, quando uscirà dal tunnel del canale uterino verrà catapultato nel mondo che non ha più a che fare con la Natura ma si troverà nel Mondo della Cultura, vale a dire dove ogni oggetto, ogni elemento esiste alla luce della parola che lo qualifica e lo nomina.

Nell’universo del linguaggio dunque anche il nuovo nato trova la sua immediata collocazione, in quanto fin da subito un Significante lo rappresenta, lo nomina nel discorso degli altri, vale a dire il Nome proprio, un Significante Primocon cui verrà iscritto all’anagrafe, con cui verrà riconosciuto, un nome che lo accompagnerà per tutta la vita e che verrà posto come memoria storica, alla fine della stessa, sulla sua lapide.

La questione però che qui mi preme mettere in risalto è che, nel momento in cui taglieranno il cordone ombelicale, gli faranno il primo bagnetto, lo colmeranno di panni e di affetto chiamandolo con quel Nome, lui non sa che quel Nome gli appartiene.

Questa è l’essenza della realtà in quanto “ umana”a cui la nascita biologica non basta per essere umani, per il fatto di essere Parlanti fin da subito l’uomo sperimenta una condizione di alienazione: l’alienazione viene ad essere la condizione originaria strutturale. Alla nascita dunque si entra nel mondo delle Parole senza saperne niente, sarà l’Altro tutti gli altri della parola che lo avvieranno lungo il cammino della conoscenza, del sapere, ma Lacan va ancora più avanti e ci dice che la conoscenza non basta, la RI/NASCITAè tale se avviene nell’ordine del senso, vale a dire che ogni nuovo nato, uno per uno, può accedere alla propria soggettività nel momento in cui a tutti i Significanti con cui viene bombardato darà un proprio significato, un proprio senso a partire proprio da quel significante primo il NOME.

Allora la condizione alienante originaria è ciò che avvia all’esigenza vitale della Domanda.C’è fin da subito un passaggio che potremo definire spiacevole, traumatico dal bisogno alla domanda.

Con il termine bisogno intendiamo il soddisfacimento degli appetiti basali, le esigenze vitali che condividiamo con gli altri esseri animali, vale a dire quelle esigenze naturali garanzia della sopravvivenza della specie e dell’individuo.

Dunque finché il bambino resta nella pancia della madre il bisogno a tutti gli effetti è garantito: il nutrimento e il calore di cui necessita il suo organismo lo riceve direttamente dalla madre stessa. La nascita pone fine a questa condizione di omeostasi, di beatitudine intrauterina, pone termine all' "ERA" del bisogno e fa scattare l' "ERA" della domanda.

Il distacco dal corpo della madre introduce immediatamente una Mancanza, un Vuoto, una Perdita, qualcosa di quella beatitudine indicibile viene persa per sempre. Allora il pianto che fin da subito caratterizza il suo ingresso nel mondo è già domanda, domanda all’Altro, appello all’Altro nella speranza se vogliamo di ripristinare quella condizione idilliaca persa per sempre.

Dunque il passaggio dal bisogno alla domanda è immediato, l’ingresso nell’ordine simbolico è immediato, è la mancanza fin da subito sperimentata a far scattare la domanda attraverso il pianto come richiesta di quel qualcosa perso per sempre e che non si potrà mai definire. Lacan ne parla nei termini di “perdita d’oggetto” un oggetto indicibile e proprio perché indicibile induce alla domanda indefinita, generalizzata, sarà la risposta dell’Altro a qualificare la domanda stessa, a restringere il campo della domanda.

Facciamo un esempio: Se il bambino piange (domanda) la madre risponde, la risposta sarà per tentativi, la madre cercherà di interpretare quel pianto: fame, sete, freddo, etc… La questione che vogliamo evidenziare è che non è tanto importante il tipo d’oggetto offerto. perché alla luce di quanto detto sopra qualsiasi oggetto offerto sarà sempre un “SOSTITUTO” dell’oggetto perso per sempre,quanto il fatto che ci sia una risposta, anche se negativa, perché se vogliamo sarà la risposta ad assurgere al ruolo d’oggetto in quanto segno tangibile dell’attenzione dell’Altro materno, paterno, segno tangibile del loro amore.

Dice Lacan che la domanda alla fin fine è sempre e solo domanda d’amore. La risposta allora può essere anche e solo dell’ordine della presenza, può bastare anche un semplice “ Sono qui”. Non è così semplice. Il bambino in verità non domanda soltanto la presenza ma anche l’assenza.

Ricordiamociche il bambino con la domanda è entrato nell’ordine simbolico e il simbolo è ciò che sostituisce l’oggetto reale,domandare l’assenza allora acquista un’enorme valenza, vale a dire poter accedere alla simbolizzazione dell’oggetto Altro: materno, paterno etc., cioè memorizzare tali oggetti che continuano ad esistere anche quando non sono presenti.

Porto un esempio: ad un incontro che feci tempi fa a dei genitori di una scuola materna, una madre fece un intervento per portare a conoscenza la sua preoccupazione che riguardava proprio il fatto che spesso il suo bambino se ne stava tranquillamente da solo nella sua cameretta a giocare e lei sentiva la necessità di andare a verificare. Domanda dell’assenza, dunque, è l’assenza che consente al bambino di simbolizzare nel caso dell’esempio riportato l’oggetto madre e allora potremo dire che quel “Sono qui” acquisterà tutto il suo valore vitale proprio nel momento in cui tale oggetto è assente, in quanto c’è già simbolizzato nel bambino.

Dare l’opportunità di emancipazione rispetto alla domanda della Presenza significa dare spazio per il DISTACCO DALL’ALTRO, significa introdurre una distanza necessaria per poter consentire di guardare oltre l’Altro, al di là dell’Altro. Questo non vuol dire che il bambino non formulerà più domanda d’amore, questa l’accompagnerà per tutta la vita, ma soltanto consentire che questa domanda della presenza possa articolarsi insieme alla domanda dell’assenza, chiedere cioè all’Altro il permesso di poter accedere al DESIDERIO

Il desiderio per esistere necessita della mancanza, si desidera qualcosa o qualcuno quando non c’è, il desiderio si nutre solo di mancanza. Potremo in ultima analisi dire che la domanda della presenza e dell’assenza è sempre domanda d’amore e di desiderio.L’amore dell’Altro come segno tangibile allora è tale quando riesce a farsi da parte per lasciare libera la via d’accesso al desiderio. L’uomo non è umano, per riprendere l’espressione di Lacan, senza desiderio, il desiderio è ciò che ha di più peculiare: a ciascuno il suo desiderio e sarà la scoperta del proprio desiderio che potrà dare senso, forma, qualità a quel SIGNIFICANTE I° da cui siamo partiti, vale a dire il NOME.

I bambini fanno tante domande, la loro curiosità è insaziabile, spesso l’adulto si stanca di rispondere ai mille perché dei bambini, ma se vogliamo alla fin fine ciò che il bambino chiede è proprio il permesso di “poter desiderare”. E’ in tutta la necessità vitale del sapere e della conoscenza che si insinua il proprio Essere Soggetto desiderante in quanto mancante alla luce di quella alienazione originaria di cui abbiamo parlato, che porta a chiedersi : " ma io cosa desidero per me! Come voglio qualificare la mia vita!"

Ricorda ad Alice il Coniglio, stiamo parlando del libro “Alice nel Paese delle meraviglie”, :”Sono io il Padrone del Significante (Il Nome) e del significato (Il Senso) che connota, qualifica il mio nome a all’interno del quale il mio Essere ha preso Forma.”iDal bisogno, alla domanda, al desiderio si articola allora il percorso logico dell’essere in quanto umano, in quanto parlante. Un percorso di ricerca di una soggettività abitata che chiede di essere sempre provata, verificata, perché il desiderio come un folletto si nasconde e riappare e difficilmente si lascia afferrare, ma anche se lo si afferra richiede di essere migliorato, perfezionato, qualcosa sempre fa scarto, manca ed è proprio questa incompletezza che gli permette di restare sempre vivo.

i— Io non so che intendiate per "gloria", disse Alice. Unpty Dunty sorrise con aria di compatimento.. — Certo che non lo intendi... se non te lo dico. Eccoti un magnifico trionfale argomento. — Ma "gloria" non significa un magnifico trionfale argomento, — obiettò Alice. — Quando io uso una parola, — disse Unto Dunto in tono d'alterigia, — essa significa ciò che appunto voglio che significhi: nè più nè meno. — Si tratta di sapere, — disse Alice, — se voi potete dare alle parole tanti diversi significati. — Si tratta di sapere, — disse Unto Dunto, — chi ha da essere il padrone... Questo è tutto. Alice era così impacciata che non disse nulla, e dopo un minuto Unto Dunto ricominciò: — Alcune di esse sono intrattabili... specialmente i verbi sono orgogliosissimi... con gli aggettivi si può fare ciò che si vuole, ma non con i verbi... Però io so maneggiarle tutte quante. Impenetrabilità! Ecco che dico! — Vorreste dirmi, per favore, — disse Alice, — che cosa significa questo? — Ora parli come una bambina ragionevole, — disse Unto Dunto, con un'aria molto soddisfatta. — Intendevo con "impenetrabilità" d'averne avuto abbastanza di questo argomento e che sarebbe stato opportuno che mi avessi detto che pensavi di far dopo, perchè suppongo che tu non intenda fermarti qui vita natural durante. — È un voler far significare troppe cose a una parola sola, — disse Alice in tono pensoso. — Quando a una parola faccio far tanto lavoro, — disse Unto Dunto, — la pago di più. — Oh! — disse Alice, troppo confusa per fare anche una sola osservazione.

— Ah, dovresti vederle venirmi intorno la sera del sabato, — disse Unto Dunto, gravemente scotendo la testa da un lato all'altro, — per aver la paga.

Quando Alice, in Attraverso lo specchio, incontra Humpty Dumpty, si scontra con la sua peculiare teoria del significato: "quando io uso una parola, essa significa appunto ciò che io voglio che significhi". È una visione solipsistica certamente accettata da pochi studiosi del linguaggio: il linguaggio è un'attività sociale, chi parla normalmente desidera farsi comprendere, e quindi non può avere un lessico tutto privato non condiviso da nessun altro. Il filosofo Hilary Putnam, inoltre, sostiene di non saper distinguere un olmo da un faggio, il che vuol dire che nemmeno lui sa esattamente cosa intende quando usa una delle due parole. All'opposto di questa visione, c'è quella che vede il significato di una parola come imposto da un particolare tipo di autorità linguistica, come ad esempio un dizionario: la parola "olmo" non denota un faggio, ma denota proprio gli olmi, perché così è scritto nel vocabolario. La difficoltà insita in questa visione è che gli estensori dei dizionari normalmente non considerano se stessi come se stessero "istituendo" il significato di una parola, ma piuttosto come se lo stessero semplicemente "registrando". Qual è quindi l'autorità originaria? Chi ha deciso per primo che la parola "olmo" denota proprio gli olmi? Molti direbbero che lo decide la comunità linguistica, ma anche questa risposta è destinata a suscitare ulteriori interrogativi. Cosa vale come comunità linguistica? Una sola persona non può costituire una comunità linguistica, perché altrimenti ricadremmo nel caso di Humpty Dumpty. Ma in virtù di quale motivo due persone, o tre, o centomila, avrebbero l'autorità che manca a una sola persona? E in che modo una comunità "decide" il significato delle parole? In quali occasioni? Attraverso quali procedure? Come difende la propria autorità? Di certo non attraverso il voto democratico. Ma soprattutto, qual è la comunità cui far riferimento per comprendere il significato di una parola italiana? Ovviamente è quella dei parlanti italiano, solo che per decidere che uno sta parlando italiano dobbiamo prima conoscere i significati corrispondenti alle parole che usa, e quindi torniamo al punto di partenza: avevamo stabilito che sono gli italofoni a decidere cos'è l'italiano corretto, ma per identificare gli italofoni dobbiamo prima avere un criterio che ci permetta di capire se parlano effettivamente un italiano corretto.

Si può ancora parlare di desiderio?

Diceva Oscar Wilde: viviamo in un’epoca in cui il superfluo è l’unica nostra necessità”

Se il linguaggio è ciò che fa struttura per l’essere umano, di quale parola siamo continuamente bombardati? Quale discorso i mass-media ci propina in maniera ridondante? Se prestassimo un po’ d’attenzione sembrerebbe che l’oceano di parole in cui siamo immersi siano finalizzate a produrre un tipo di comunicazione che non deve indurre alla domanda ma che abbia il preciso intento di riproporre il bisogno.

La riproposizione del bisogno comporta che tutti gli oggetti acquistino una valenza vitale come se la rinuncia ad uno di essi comportasse il rischio di compromettere la sopravvivenza della specie in quanto umana e della vita di ognuno.

Linguaggio dunque al servizio della massificazione, della globalizzazione dove non c’è più posto per la domanda e tanto meno per il desiderio particolare a ciascuno.

Se l’essere umano potesse ri/completarsi attraverso la ridondanza del linguaggio delle immagini che propone il bisogno degli oggetti, questa è sicuramente l’epoca giusta.Se l’essere umano fosse riconducibile solo alle esigenze vitali del bisogno, questa è sicuramente l’epoca giusta; ma il ben-essere proposto ricondotto e incanalato sul piano dell’avere sembra invece produrre un disagio, un malessere che si riscontra a livello generalizzato.

Il linguaggio del bisogno comprime la dimensione cronologica del tempo, tutto diventa contingente e vitale, tutto deve essere consumato velocemente, tutto deve essere riempito.

C’è un tempo – dice Lacan – che non può essere oggettivato ed è il tempo logico che si qualifica in tre scansioni in cui la dimensione cronologica di ciascuna è subordinata alla logica soggettiva di ognuno: l’istante di vedere, il tempo di comprendere e il momento di concludere. In questa nostra civiltà sembra non sia più possibile rispettare il tempo di comprendere in quanto sollecitati sul versante di concludere, abbagliati dall’istante di vedere.

Il mercato dei consumi impone, come un SUPUR-EGO spietatol’azione ad ogni costo, il consumo ad ogni costo per essere al passo con i tempi stabiliti da quella che la Roudinesco (psicoanalista francese) definisce ”Società liberale depressiva”.

La depressione di cui si rileva il forte aumento tanto da essere elevata al grado di malattia del nostro tempo, una specie di virus contagioso, evidenzia come il Soggetto all’interno della globalizzazione che impone un livellamento di condizioni, una eliminazione dei limiti e dei divieti, una uguaglianza pre/stabilita e non conquistata,si ritrova “PERSO” della possibilità della

ricerca del suo “SENSO”di esistenza; allora cerca nell’uso di sostanze, nel culto dell’immagine, nella competizione fondata sulla materialità, una felicità impossibile.

Lo spostamento dell’attenzione dal Reale dell’uomo, dal suo Essere, dall’Etica, verso il versante dell’Avere e dunque delle etichette indispensabili per non impattare con il fantasma dell’esclusione, non fanno che mettere in primo piano l’aumento del disagio e del malessere che trovano espressione tra l’altro nel panico, nell’aggressività e nella violenza.

“Il disagio della civiltà” di cui Freud già ci metteva in guardia, ci induce ad interrogarci se l’essere in quanto umano può ancora essere considerato Soggetto in grado di portare avanti un suo desiderio peculiare, personale fosse anche in antitesi con i modelli e le maschere imposte dalle leggi del mercato.

Ogni analisi fatta con i mezzi dell’arteterapia è quindi qualcosa di irripetibile, ove il parlante può forse riuscire nell'opera di dire qualcosa che lo racconta e che lo fonda nell'essere, in forza dell'esistenza della testimonianza di chi l'ascolta.

Il malessere psichico sembra essere un male così profondamente intimo da essere difficilmente raggiungibile a partire dall'istanza della ragione; pensiamo che poterlo intravedere implichi la disponibilità di qualcuno - nel posto dell'altro che ascolta e che viene messo nel posto del curante - che possa risuonarne senza perdersi, ma anche poter oggettivare attraverso la metafora visiva di un’opera artistica le sfaccettature di sé per approdare a qualcosa che è dell'ordine della possibilità di scoprire un modo per poter affrontare la situazione di transfert emergente dall'arteterapia: atto che può permettere di imparare a far posto, dentro di sé, all'imprevedibile del vivere.